venerdì 28 ottobre 2011

Ciao Elly

Racconto di SANDRA CARRESI


Ti ho conosciuta alla fine degli anni ‘70, eravamo nel medesimo ambiente di lavoro. Stravagante, particolare, bella, alta, magra, bionda e …due pezzetti di cielo al posto degli occhi. Vestivi con abiti dello stile di quel periodo, un po’ tipo “falso trasandato”, ma erano per te, anche se tu avresti indossato con eleganza qualsiasi “cencio” messo addosso. Avevi la personalità e il profumo dell’intellettuale, anche se la tua laurea in “Storia dell’Arte” era da sempre in un cassetto. Avevi una voce bellissima e spesso cantavi, riscuotendo ammirazione. Ti ricordo un agosto, appena tornata da lidi esotici dalle vacanze. Arrivasti in ufficio, dopo una pedalata in bicicletta, era caldo, il tuo corpo era completamente dorato, un paio di pantaloni ed una camicetta aperta e annodata sotto il seno. Ti fotografai con gli occhi e questa é una delle più belle immagini che ho di te.
A quel tempo ti occupavi di cultura e nel nostro ambiente ne fabbricavamo molta. Eri sposata con un americano, Peter, ma non avevi nessun figlio. Tua madre aveva creato una farfalla, ma la voleva solo per sé, così che spesso ti ho vista piangere per mediare questo rapporto che ti stava troppo stretto e da cui, per educazione ed amore, non osavi ribellarti più di tanto.
Poi il tuo amore per Peter si trasformò in affetto e ti innamorasti di un ‘altra persona, al punto che, negli anni ‘80, diventasti madre di una bellissima bambina ed iniziasti a vivere la tua storia da favola.
Cosa é successo dopo pochi anni, non lo conosco. So che la tua storia é finita, sei tornata a casa da tua madre, la tua testa é stata definita “inaffidabile”, la tua bambina ti é stata tolta e, molto piccola, é andata a vivere col padre. Tu la vedevi solo saltuariamente. Ti sei lamentata con me di questo fatto, poi, con gli anni, ho saputo che la tua unica compagna, fino all’altro giorno, é stata la bottiglia.
Anni addietro, ti ho telefonato e parlando con me al telefono, nel sentire la mia voce, mi hai detto?:
- Sei un fantasma?-
Eri sobria ed era un dopocena.
- Vengo dal presente –  ti ho risposto e tu mi hai detto:
- Non sono più quella di prima…-
Ti ho vista un giorno anche in strada. Tu non mi hai riconosciuta. Pioveva, camminavi attaccata ai muri. Ho pianto e sono andata via.
Voglio regalarti almeno questo abbraccio. Ho saputo che sei uscita da quel lussuoso palazzo sul Lungarno della nostra bella città e dall’ultimo piano dove abitavi nel più assoluto silenzio. Chi c’era, ha fatto molto silenzio, quasi fosse una vergogna  morire. Quando nel palazzo hanno saputo, era tardi, non c’era più tempo neanche per regalarti un fiore.
Io non riesco a liberarmi del passato, perché fa parte del mio “io”; non mi appartengono i sentimenti balneari, conosco solo sensazioni intense e forti e sono anche capace di soffrire molto. Fa parte della mia natura. Per questo ho voluto “abbracciarti così”, perché so che ti sarebbe piaciuto. 
Ciao Elly, ti lascio andare.

di SANDRA CARRESI

giovedì 20 ottobre 2011

Sotterranea distrazione

racconto di SANDRA CARRESI

Vania lavorava in pizzeria, faceva la cameriera, si guadagnava da vivere con questo lavoro, otto ore al giorno portando piatti ai tavoli, con antipasti, primi, pizza e dessert. Non era molto svelta nel servire i clienti, ma i conti, quelli sì, li sapeva fare bene e velocemente.

Era carina, snella, una brunetta con la coda di cavallo, naso dritto e magro e occhi color nocciola che la facevano sembrare un dolce cerbiatto.

Non le piaceva molto fare la cameriera, Lei era ragioniera e avrebbe voluto lavorare in un ufficio, magari in uno di quei grandi palazzi, dove gli impiegati scendendo a pranzo, venivano a consumare un piatto di pasta.

Una volta aveva lavorato in un Ufficio presso un commercialista, ma poi Lui si era trasferito altrove e Lei era rimasta senza lavoro, così si era dovuta accontentare di quello che le era capitato: un lavoro onesto, a contatto col pubblico, scarpe basse un grembiule davanti, i capelli raccolti e su e giù con i piatti fumanti.

Quel sabato sera la pizzeria era piena, per lo più ragazzi giovani e qualche coppia più matura. Tante chiacchiere, bottiglie di birra e lattine di coca cola.

Stava proprio servendo una coppia di quarantenni: Lui alto, magro, con tanti capelli ondulati e solo qualche filo d’argento ai lati, Lei, una donna morbida e mielosa, messa in piega fatta da poco, con ciuffo ben phonato, vestito da boutique color verde smeraldo come i suoi occhi che brillavano al solo guardarlo.

Vania ebbe un momento di fastidio, aveva problemi con la glicemia e troppo miele la faceva nauseare. Perfettamente professionale, prese le ordinazioni, sorrise e tolse la sua persona da quel tavolo velocemente.

Un senso di nausea l’assalì d’improvviso, ma determinata nel suo lavoro, fece finta di non farci caso e servì alla coppia la loro fumante pizza. Lui, preso dalla compagnia della “verdona” le aveva appena rivolto un sorriso distratto, ma quasi subito la richiamò:

-       “ Signorina, prego, con questi coltelli non è possibile tagliare la pizza, può portarci qualcosa che assomigli ad un coltello tagliente?”

-       “ Certo, rispose Vania, sorridendo ma infastidita e nauseata, arrivo subito.”

Vania voleva fare tutto velocemente, almeno per una volta, e mentre portava ancora due piatti fumanti di spaghetti all’astice, teneva i due coltelli con la punta rivolta in alto, ma il destino volle che appena arrivata al tavolo della coppia, inciampasse arrovesciando gli spaghetti in terra e drammaticamente uno dei due coltelli andò a centrare la parte alta dietro il collo di quell’uomo giovane e bello.

La candita camicia si macchiò immediatamente di sangue, Lui accasciò la sua testa sul tavolo senza un lamento, mentre la donna gridava disperata. Nella frazione di un attimo nella sala ci fu un gran baccano: la gente si era alzata, urlava, Vania piangeva con le mani al volto. Il proprietario chiamò immediatamente l’ambulanza, ma per l’uomo non ci fu  più niente da fare e quando arrivarono i soccorsi era già morto: centrata la vena del collo, un lavoro che solo un chirurgo avrebbe potuto fare con tale precisione.

Nei giorni che seguirono Vania rimase a disposizione della polizia. Di lavorare non se ne parlava, e poi, chissà se avrebbero ancora avuto bisogno di Lei.
Era stata una disgrazia, d’accordo, ma chi l’avrebbe nuovamente assunta?

Passò un po’ di tempo, Vania si guadagnava da vivere facendo le pulizie negli appartamenti, sbarcando così il lunario, sempre più triste e afflitta.

Poi un giorno, sentì bussare alla stanza che aveva preso in affitto; era la proprietaria che con aria preoccupata, le annunciò la presenza della polizia.

Le fecero molte domande, Lei all’inizio era smarrita ed i suoi occhi da cerbiatta facevano pena a tutti, poi, a mano a mano che la matassa si ingigantiva, soprattutto quando il Commissario le fece notare che Lei, quando in altri tempi, era bionda e con i capelli a caschetto era stata alle dipendenze dell’uomo morto in pizzeria, Vania diventò abile, aggressiva ed i suoi occhi color nocciola, assomigliavano sempre più a quelli di un puma dentro una gabbia.

Diceva che non lo aveva riconosciuto, che era cambiato, che stava lavorando e che non aveva tempo né voglia di osservare i volti dei clienti, ma il commissario era sospettoso e le disse chiaramente che per Lui questo era un omicidio e non una disgrazia.

Ma come poteva una ragazza così semplice, dolce, lavoratrice, avere la mente di una assassina? Poi, la precisione di quel coltello …, era da attribuire ad un chirurgo o …ad un esperto.

Ce l’aveva quasi fatta Vania e stava preparando le valige per andarsene e dimenticare, sì, dimenticare quell’amore grande per quell’uomo che non l’aveva neanche riconosciuta…, era bastato un colore e un taglio di capelli diverso per annullarla completamente. Aveva avuto quello che si era meritato. Sapeva che frequentava quella pizzeria e si sarebbe fatta assumere anche venendo a patti col diavolo.

Le donne abbandonate, soprattutto senza una motivazione chiara, quando sono innamorate possono essere capaci di tutto.

Peccato che il Commissario, non avesse mai creduto alla sua innocenza, e che in ultimis, avesse scoperto il lavoro di anni della madre presso un Circo familiare  dopo che il marito, il padre di Vania l’aveva lasciata con una bimba di appena due anni,  trovando in quell’ambiente, conforto, protezione e amicizia,  facendo la “donna”  del lanciatore di coltelli. Vania, aveva sempre respirato la confidenza delle armi bianche, tanto da rimanerne affascinata; era stato proprio lo Zingaro Milock, che parlando col Commissario, rammaricandosi dell’assenza di Vania da anni, gli aveva raccontato di come all’epoca, la piccola,  avesse recepito bene l’arte di saperli lanciare alla perfezione….

Impara l’arte e mettila da parte, dice un antico proverbio.
Vania lo aveva fatto.

giovedì 13 ottobre 2011

La casa delle ragazze

racconto di SANDRA CARRESI



Era un rito.
Tutte le domeniche pomeriggio le ragazze si ritrovavano dopo una settimana forse noiosa e poco movimentata. Poi, addirittura, l’ultima domenica del mese, quando i negozi rimanevano aperti, pranzavano tutte assieme.

Angela metteva la sua casa a disposizione. Abitavano tutte nello stesso rione, ma il suo appartamento era centrale o forse Lei era quella più disponibile a fare da “padrona di casa”, con la sua abitazione a pianterreno:  pochissime scale, niente ascensore, una spaziosa cucina tinello, accogliente, soleggiata e la tavola rotonda per l’evento della domenica.

Facevano la loro partita a burraco e si divertivano, ma quando il sole invernale non faceva il prezioso e usciva, alle ragazze piaceva gironzolare ed osservare le belle vetrine e magari spettegolare e inorridire sui prezzi troppo alti.

Angela non faceva mai mancare loro il te con i biscottini, era una piccola pausa e il pretesto per spettegolare sugli avvenimenti della settimana.

Saltare il rito domenicale era raro e quando ciò accadeva era sempre per motivi di salute, semplicemente perché le ragazze avevano ottant’anni o qualcuno in più, come appunto mia madre.

Poi passavo io, la sera alle 19, con la mia Panda e facevo da taxi. Quando entravo le vedevo raggianti e divertite, qualche volta qualcuna protestava per la disattenzione della compagna di gioco alle carte  ed avevano un’aria indispettita, ma buffa.

Tutte vestite alla moda, la cipria sulle guance, il rossetto alle labbra, e l’immancabile Chanel.

Gli acciacchi dell’età e altri cattivi acquisti, erano in abbondanza e sempre in aumento, ma la voglia di vivere quella partita  che non si limitava solo al “burraco”, andava oltre all’alzata mattutina, alle medicine, alla colazione  e se lo specchio rimandava un’immagine che non soddisfaceva, c’era sempre  la possibilità di barare con quelle armi che solo le donne sanno usare, oltre il tempo, con la volontà di vivere e di piacersi ancora.

Adoro chiamarle “ ragazze”, e ancora continuo ad andare a prenderle la domenica sera, e mi si riempie il cuore quando le sento ironizzare sulla loro difficoltà ad entrare ed uscire dalla mia Panda, ma percepisco quell’ allegria che non è poi così lontana da quella di una ragazzina alle sue prime uscite domenicali; in fondo è solo una questione motoria, ma è pur sempre: Vita.

giovedì 6 ottobre 2011

Laila

Racconto di SANDRA CARRESI

Laila era nata più di mezzo secolo fa,  in un paesino della bella Sicilia, in un corpo di maschio che non gli era mai appartenuto.
Non ci aveva messo molto a capire che avrebbe voluto essere come le sue quattro sorelle più grandi e senza neanche tanti problemi aveva manifestato il suo stato d’animo in famiglia.

La famiglia è quel nucleo dove si può parlare apertamente, si può manifestare i disagi, le gioie da condividere, dove la soluzione al problema si cerca di risolverla, ci si arrabbia, si prendono le sfuriate, ma si ragiona e si cercano soluzioni in maniera unita; se non si raggiungono, cosa probabile, in genere si ribadisce il proprio pensiero ma si accetta rispettando la decisione altrui.

Sicuramente attraverso più di mezzo secolo i passi avanti verso la cultura, l’istruzione, la crescita sociale e il benessere, immaginario o reale, a secondo dei punti di vista, sono stati notevoli rispetto a quando Laila se ne andò da casa a sedici anni dopo tante botte, tribolazioni e senza che nessuno dei suoi familiari più stretti la fermasse, o che provasse a consegnarle un futuro migliore.

Giunse a Milano da una zia materna, con vedute più generose che si prese cura di Lei tanto da metterla in contatto con la USL e dietro regolari controlli, Laila, maggiorenne, realizzò il suo sogno:  con un intervento ben riuscito  fu Laila per tutti. Un corpo ben  modellato, una camminata tipicamente femminile; unica stonatura forse, le mani: piccole ma tipicamente maschili.

Poi, in seguito, dopo la morte della zia, Laila dovette venir via da Milano; non aveva un lavoro suo, era molto giovane e non ne conosco né la storia, né il motivo, ma venne a Firenze, le fu assegnata una casa popolare, ebbe la compagnia di un cagnolino grazioso: Frullino e iniziò a frequentare l’area per cani proprio di fronte alla sua casa, ed è lì che l’ho conosciuta, portando fuori il mio Benny per la passeggiata pomeridiana.

Lei faceva i turni presso un’impresa di pulizie, il lavoro, anche se precario, le dava dignità e la faceva sentire bene.

Poi,  l’impresa chiuse e Laila si trovò senza lavoro, come tante altre persone nel nostro Paese, colpite purtroppo dalla crisi economica.

Certo, durante gli anni della sua vita, avrebbe potuto evolversi non solo nel fisico, ma anche intellettualmente, magari facendo dei corsi serali organizzati dai comuni, prendere un diploma, imparare un mestiere che le permettesse di trovare un lavoro più ricercato, ma era vissuta sempre facendo lavori nel campo delle pulizie senza mai avere un contratto sicuro e a lungo termine. Adesso sono tempi difficili per tutti, ma mettendo a disposizione la sua testa, la sua intelligenza nei giovani anni della sua vita, forse qualcosa di migliore e positivo per la sua esistenza poteva realizzarlo anche se poteva contare solamente su se stessa e al massimo su qualche persona  all’interno delle strutture sociali.

Recentemente era proprio dietro la struttura delle USL che riusciva a guadagnare qualche soldino quando la chiamavano per un qualsiasi lavoretto tipo le pulizie all’interno delle scuole, ma solo saltuariamente. Da qui depressione, malinconia e tristezza.

L’ho incontrata sull’autobus di recente e mi ha appunto aggiornata sulle sue vicissitudini: quest’inverno, non ancora terminato, è stato veramente freddo visto che i termosifoni della sua casa non sono stati mai accesi per risparmiare. Un letto con parecchie coperte e un abbigliamento da sub per affrontare un frigorifero di casa e persino Frullino, sul suo tappeto, dormiva volentieri con una coperta addosso, nonostante la sua pelliccia naturale. Fortunatamente le venivano incontro per il pagamento dell’affitto di casa, comprendendo la situazione e sapendo aspettare. Di recente si era guastata pure la televisione e grazie alla generosità di un’amica, aveva ricevuto in regalo un suo apparecchio televisivo piccolo ma ben funzionante. Per non parlare del motorino, regolarmente pagato nei tempi” d’oro”, che se ne stava coperto e immobile nel cortile comune della sua abitazione perché privo di assicurazione.

Mi raccontava queste tristezze con dignità e con un sorriso dolce, quasi a voler scacciare le malinconie che la deprimevano, e quando è scesa, prima di me dall’autobus, sono rimasta seduta e pensante a guardare la strada che conosco a memoria, visto che mi porta al mio ufficio. Ho immaginato il freddo di quella casa dove Laila e Frullino si facevano compagnia con la loro intesa affettiva, ed ho pensato a me, al mio lavoro, alla mia pensione visto che col 2010 farò quarant’anni lavorativi. Ho riflettuto a quanto sia importante e indispensabile un’occupazione retribuita, alle mie lotte negli anni indietro per il mio diritto al lavoro, facendo coincidere il tutto con la famiglia, alla  stanchezza di certe sere, alle tonsilliti di mio figlio, ai miei disagi di salute, e ad oggi che sono al capolinea lavorativo, a questa fase della mia vita che sta concludendo degnamente, e sono amareggiata per Laila che ha risolto il suo problema più gravoso della sua personalità, ma ha tralasciato forse, per non aver avuto la possibilità, la volontà, o per mancanza di incoraggiamento o incalzamento da qualcuno a Lei affettivamente vicino, di effettuare quel percorso lavorativo migliorativo con il quale poi, si accede allo strumento principale che manovra la vita, a quel timone che porta a navigare la nave anche attraverso le bufere, a ciò che abbiamo sempre difeso e preteso, che forse non a tutti dà il benessere ma col quale si raggiunge l’autonomia per onorare i nostri impegni, ed avere una vita decorosa per noi stessi e la famiglia: il lavoro.